Silvano
di Marco Celati - sabato 06 agosto 2016 ore 19:57
Quando si dice il caso. Aspettavo una telefonata per un problema di lavoro. Se vedo un numero nel cellulare che non conosco, in genere non rispondo. Siamo ormai completamente dipendenti dalla telefonia mobile, anche perché con queste diavolerie telefoniche moderne ormai si fa di tutto. Se ci mettessero delle testine rotanti in cima, forse sarebbe anche possibile radersi o depilarsi con i cellulari. Però considero questi aggeggi una palese violazione della privacy, un'insopportabile invasione della nostra riservatezza e, per dirla in francese, un grandissimo rompimento di coglioni. Tuttavia quel numero poteva essere quello del servizio relativo alla soluzione di un annoso dilemma aziendale. È giusto e lecito installare nello spogliatoio delle lavoratrici e dei lavoratori condizionatori d'aria e deumidificatori, oppure no? Il responsabile della sicurezza diceva di no, che l'Asl lo sconsiglia perché possibile causa dell'insorgenza di malattie professionali, più o meno accampate: colpi di fresco, della strega, eccetera, eccetera. Lo diceva nel suo ufficio ben condizionato e con un piccolo ventilatore suppletivo sul pavimento che gli aerava la postazione di lavoro e gli teneva al fresco le palle.
Quest'anno chiederò una settimana di ferie da fare in azienda: vado in ufficio, leggo il giornale, non faccio un cazzo e mi godo il confortevole refrigerio del condizionatore. Mi riposo più così. In casa c'è un caldo boia e se si va da qualche parte la fatica è insopportabile. L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro e sulle ferie. Le ferie non sono più un diritto, sono un dovere. Ci vorrebbe un periodo di riposo per prepararsi o per riprendersi dall'insostenibile pesantezza dell'essere in ferie. E per questo avrei deciso che sì, è giusto: dato che negli spogliatoi la temperatura media estiva è intorno ai 36 gradi, è più salutare raffrescare un minimo l'ambiente. Così, con queste intenzioni, ho risposto al numero evidenziato dal display del cellulare.
«Pronto Marco, come stai?»
«Scusi chi parla?»
«Come chi parla, sono io!»
«Ma io chi? Mi scusi.»
«Silvano!!!»
«Silvano chi? Silvano!!! Ma sei proprio te? Quanto tempo! Dove sei?»
«Sì sono io e chi se no?! Te dove sei?»
«In azienda.»
«Sempre in quella?»
«Sì e dove se no?»
«Allora mi trovo nelle vicinanze; ti vengo a trovare ora, ce l'hai un minuto?»
«Certo, mi fa piacere. Vieni, ti aspetto.»
Silvano, un amico di scuola, del liceo scientifico. Non ci vedevamo da anni. Che tempi! Io, nonostante gli studi scientifici, ero bravo in italiano, latino e umanistica varia, lui invece, più coerentemente, era una scheggia in matematica, fisica e scienze applicate. Una bella testa e un bel ragazzo: carnagione scura, capelli mori e ricci, alto. Lo sapeva, si piaceva e faceva il gigione, lo sbruffone. Giocava a basket, garbava alle ragazze. Era nel gruppo di amici di scuola e non solo di scuola. Io ero credente, di famiglia democristiana, lui no, era figlio di Olinto, un operaio comunista, anzi un comunistone, anche per la mole: era un uomo alto e robusto. Stavano alle case popolari. Anche Silvano però, come me, frequentava l'Azione Cattolica perché c'erano gli amici e sopratutto le ragazze. "Solo una sana e consapevole libidine" salverà in seguito tutti quei giovani, noi compresi, dall'Azione Cattolica e relativo stress, come dice la canzone di Zucchero. Poi la vita era scorsa.
Con Silvano c'eravamo incontrati, una volta, diversi anni addietro. Qualcosa sapevamo dunque l'uno dell'altro, ma poi c'eravamo, da tempo, persi di vista. Sapevo che si era laureato. «Ingegnere?» Gli avevo chiesto. «Non cominciamo a offendere, sono laureato in chimica e sono anche bravo» aveva risposto con immodestia appena pronunciata. Mi aveva anche detto che si era sposato. "Fui chimico e, no, non mi volli sposare, non sapevo con chi e chi avrei generato", ma l'amico si era ammogliato bene. A Milano, dove si era trasferito. Lei era ricca, suo padre aveva diverse imprese. «Però nelle aziende di mio suocero non ho mai voluto lavorare» precisava con una punta di orgoglio. Lavorava nella chimica, nel gruppo Montedison se non ho capito male. Si occupava di progetti importanti, avanzati per il tempo, nel campo della depurazione e dell'energia e chissà di cosa altro. E mi diceva che aveva fatto i danè. Aveva comprato due case in centro a Milano, bella vita, amicizie altolocate, qualche nome importante nel mondo dell'impresa e della finanza. Qualcuno che poi sfonderà, qualcuno che finirà male. Vivere pericolosamente. Insomma si era sistemato. Niente male per un figlio della classe operaia al quale istruzione e intelligenza avevano consentito un'invidiabile promozione economica e sociale. E qui io l'avevo lasciato, parecchi anni fa e non avevo saputo più nulla di lui e della sua brillante vita.
Quando arriva in azienda ci abbracciamo, lui si abbassa un po' per baciarmi. È calvo come me, ma un po' meno invecchiato, è con un ragazzo alto, di pelle scura e capelli crespi e nerissimi.
«Questo è mio figlio» e dice un nome strano «ha tredici anni.»
«Ciao, che piacere, complimenti» rispondo, ma non so cosa dire, prendo tempo.
«Bel ragazzo, Silvano» aggiungo «alto come te, anche più scuro di te...» E lascio la frase in sospeso.
«Per forza» risponde «è messicano!»
«Ah, ecco, mi pareva...»
E a questo punto Silvano, dopo un breve riassunto delle puntate precedenti, riprende il racconto della sua vita.
«Dove eravamo rimasti?»
«Ti eri sposato e avevi fatto i soldi.»
«Ma non avevo fatto figli. Dopo le analisi del caso, anzi del cazzo, i medici avevano sentenziato che avevo gli spermatozoi lenti e che sarebbe stato altamente improbabile. Eppure uno solo, ne bastava soltanto uno, anche lento, per fecondare l'ovulo!»
Dice i figli salvano le famiglie in crisi. Non è vero e non dovremmo pensarla così. È più certo semmai che un rapporto già in crisi e senza figli possa perdersi prima. E così fu per Silvano e sua moglie: il matrimonio versava già in cattive acque. Ma è a questo punto che il racconto di Silvano si fa interessante e singolare.
Intanto mi parla del compianto Renzo, un grande della nostra città: operaio comunista di grandi visioni, come allora ce n'erano nella politica. Era, al tempo, un amministratore pubblico e un dirigente nazionale del PCI. Siamo negli anni ottanta. Renzo sosteneva che bisognava seguire le politiche europee, era un attento osservatore della socialdemocrazia tedesca anche per ragioni familiari: la figlia stava in Germania dove lui andava spesso a trovare i nipoti. Ma, da cittadino del mondo, pensava anche che l'Italia dovesse avere un ruolo centrale tra i Paesi del Mediterraneo per ragioni strategiche, economiche e sociali. Così aveva chiesto a Silvano di parlarne con un amico tunisino di cui lui gli aveva parlato. La famiglia di questo signore era molto influente e aveva forti rapporti con Habib Bourguiba, l'anziano Presidente della Tunisia. Silvano provò a tessere queste relazioni, sennonché nel 1987 in Tunisia ci fu un colpo di Stato che depose Bourguiba e impose Ben Ali alla presidenza. E anche la "missione" di Silvano non ebbe più seguito. Lui almeno così la racconta: di falsa modestia non ha mai peccato, ma nemmeno di mancanza d'intelligenza, né di difetto di conoscenza o sapere.
E poi Silvano mi dice di qualche serio malanno che ha minacciato la sua vita: il bel sorriso giovanile che ricordavo adesso è un po' tirato, ma ne è uscito. E qui viene il più bello della storia: passati da poco i cinquant'anni Silvano è benestante, un professionista stimato, ricercato, ben pagato. Si separa dalla moglie e dalla ricca famiglia acquisita, così dice, e tutto d'un tratto decide che basta così. Con il lavoro, lo stress, la performance, la Milano da bere. Vuol vivere solo per riscoprire se' stesso, per ritrovare un mondo di affetti e nel mondo cercare un suo posto, perché è così che bisogna fare, sostiene. Al diavolo patrie e nazioni, affari e finanza, interessi e complotti, chimica e brevetti. Tutto quanto, tutti quanti affanculo: non faccio più un cazzo. Si ricomincia da capo. E così lascia ogni cosa, affitta le sue case e, con i soldi che aveva da parte, va in giro in cerca di affetti e di vita e la prima fermata è l'amore. Una giovane messicana, un'architetto, che vive nello Yucatàn.
La statistica, che assegnava a Silvano poche possibilità procreative a causa dei suoi lenti gameti, è una scienza probabile, ma non esatta e alla fine aveva ragione lui: ne bastava uno solo, anche lento. Infatti, dopo anni di tentativi andati a vuoto, un bel giorno un solo spermatozoo centrò lentamente l'obiettivo e il mio amico e la sua nuova compagna, dopo nove lentissimi mesi, ebbero una figlia. E a distanza di pochissimi anni anche un figlio. All'amico gli spermatozoi devono essersi velocizzati nel frattempo o hanno imparato a prendere bene la mira. Oppure sarà la giovane messicana che è particolarmente brava. È piccola e graziosa, dice Silvano, con lei mi fermo per amore e per stare con i figli. E poi sono vecchio, oramai. È piccola, dice, e io mi ricordo e penso, ma non glielo dico, che così erano suo padre, un omone, e sua madre, una donna minuta. E sono stati insieme per tutta la vita nella loro casa popolare. E così ora Silvano sta nello Yucatàn, in un paese in crescita e con tanti problemi di cui mi parla. Forse vorrebbe portare la famiglia in Canada -in America no, paese di merda- ma la vita là è troppo cara e ora non ci sono più gli agi milanesi. Ora bisogna spendere con sobrietà e misura e sperare che presto arrivi la pensione. Però il succo, l'incredibile e il bello della storia è già stato detto e all'amico ridono gli occhi scuri e rotondi di quando era ragazzo. Il figlio ci fa una foto, anche Silvano mi fa uno scatto con il figlio e io invece non faccio una foto ricordo a nessuno. Non mi viene in mente, forse perché sono sempre stato uno stronzo oppure solo impacciato nella vita. O forse perché questo racconto era già il mio ricordo, l'immagine impressa nella mente e nel cuore. Ma gli amici finiscono per perdersi. Arrivano, inevitabili, i saluti, i baci e gli abbracci. La cerimonia del commiato. Vado da una cugina, abita qui vicino, sono stato al camposanto sulla tomba dei miei vecchi. Vienimi a trovare.
«Dove ?» Gli chiedo.
«Come dove? Nello Yucatàn e dove se no.»
Li accompagno, li vedo andar via. Silvano si gira, mi saluta con la mano. Da lontano rispondo al saluto. Io non ho il tuo coraggio, amico mio. Ci vediamo fra altri quindici anni. Se li avremo. Ottemperiamo al dovere, ma è il piacere che tutti inseguiamo.
Marco Celati
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Pontedera, 26 Luglio 2016
Il golpe tunisino passò alla storia come il "colpo di Stato medico", vi ebbero parte anche alcuni servizi segreti tra cui il SISMI su indicazione di Bettino Craxi. Il 7 novembre 1987 divenne Presidente della Repubblica di Tunisia Ben Ali, dopo aver facilmente convinto i medici di Bourguiba a dichiarare che il "Presidente a vita" era inabile e incapace di adempiere i doveri della presidenza. La transizione si svolse in modo pacifico, in conformità con l'articolo 57 della Costituzione tunisina. Lo Stato era sull'orlo del collasso economico (inflazione al 10%, debito estero che raggiungeva il 46% del PIL) e a rischio di un attacco militare da parte dell'Algeria, cui si aggiunse l'asserita scoperta di un progetto di colpo di Stato da parte del fondamentalista Movimento della Tendenza Islamica - originariamente noto come Azione Islamica.
Nel 1999 Fulvio Martini, ex capo del SISMI, il servizio segreto militare italiano, ha dichiarato ad una commissione parlamentare che "nel 1985-1987 abbiamo organizzato una sorta di golpe in Tunisia, mettendo il presidente Ben Ali come capo di Stato in sostituzione di Bourguiba". L'ottantaquattrenne Bourguiba, anche se era un simbolo della resistenza anticoloniale, era stato ritenuto non più in grado di governare il paese per il suo precario stato di salute mentale e la sua reazione all'integralismo islamico era stata ritenuta "un po' troppo energica".
"Fui chimico e, no, non mi volli sposare..." è una citazione da "Un chimico", una canzone di "Non al denaro non all'amore né al cielo", album del 1971 di Fabrizio De André, tratto da "Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters.
Marco Celati