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mercoledì 04 dicembre 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

L'evoluzione della specie

di Marco Celati - domenica 05 dicembre 2021 ore 10:30

a Massimo

L’evoluzione umana, nella sua fase più recente, passa da questi principali stadi: australopithecus, homo habilis, homo erectus e, finalmente, homo sapiens. Cioè noi. L’australopiteco non era altro che una scimmia del sud e vabbè. Il passaggio all’homo habilis fu basilare, ma il vero salto evolutivo si ha tra homo habilis e homo erectus. Il nostro preistorico progenitore, in quella decisiva transizione, nella sua età più avanzata, avrà pensato: insomma, erectus, si fa quel che si può. Il maschio. Ma anche la donna si era appassionata all’idea. Perché a quattro zampe era meglio, meno mal di vita – pare che i quadrupedi non ne soffrano – tuttavia anche lei si eresse. Capace per prima. Il progresso è progresso e cosa non si fa per progredire! E da allora, passando attraverso la bestialità di cui soprattutto i maschi retrogradi dell’orda, conservano ancora memoria e attitudine, fino a “I’m Your Man” di Leonard Cohen fu tutta una tirata. In effetti nella Rift Valley ergersi sopra la vegetazione della savana, aveva il suo perché, per la vista e per cacciare senza essere cacciati.

D’altra parte eravamo discesi dagli alberi da poco e così, su due piedi, dovevamo darci una mossa. Seguivamo una dieta in prevalenza vegetale, essendo provvisti di molari adatti allo scopo: bacche, radici, noci, alimentazione che integravamo con grassi bruchi e larve. Ma non bastava più, camminare da bipedi era faticoso, avevamo bisogno di proteine per dare energia alle gambe, ai piedi e al cervello. Stabilendo nessi alquanto sconfortanti. Si dice ancora “chi non ha testa ha gambe” e “avere il cervello nei piedi”. Ma diventammo cacciatori perché ci occorreva la carne, magari tagliata e battuta, meglio ancora se cotta, per sostenere la nostra crescita e far sviluppare soprattutto la testa, sperando che funzionasse. Così incrementando pensieri, sogni, cefalee e il resto a seguire. Ma, quanto ad erezione, tutto è relativo. Già allora era una bella gara fra chi si sperticava oltre le erbe alte. Specie tra i giovani cacciatori: Te erigi? Quanto erigi? L’uomo è pur sempre una bestia, dopo tutto.

Eppure è stato a quel punto, in quel preciso istante, da quella primordiale lucidità e relatività dell’erectus e della sua statura, che nacque e si fece strada l’homo sapiens. L’animale pensante che ha consapevolezza di sé. Che pensa se stesso. Che ha coscienza della propria capacità, come del proprio limite. Delle proprie frustrazioni. Dopo il pollice, anche il cervello opponibile fecero dell’uomo abile ed eretto, l’uomo sapiente. Quello che conosciamo e in cui ci riconosciamo: specie individualista, solitaria e gregaria. Quello che sa. Che sa una sega perché è al mondo e comunque se lo chiede.

Certo, anche il fuoco ebbe la sua importanza e che dire del fornello a gas! E la ruota, la navigazione, il passaggio dalle caverne alle dimore, alle tende delle popolazioni nomadi. La nostra canadese rossa era da tre posti, per starci comodi in due. Eravamo partiti su quattro ruote, a bordo di una cinquecento usata, rossa anch’essa e stracarica, con un viaggio reso inopinatamente avventuroso dai miei colpi di sonno. Ero il guidatore. Poi con il traghetto, navigando da Porto Santo Stefano, eravamo approdati all’Isola del Giglio. Ci eravamo accampati a Giglio Campese, sulla collina che domina la baia. Campeggio “Baia del Sole”: era la preistoria, gli anni ‘60, ma credo esista ancora. Sotto di noi, a sinistra, la Torre Medicea, sovrastante la grande spiaggia rossastra e il porticciolo e, all’estremità opposta del golfo, il Faraglione, sulla punta che porta il suo nome. Uno scoglio monolitico che emerge sul mare per circa venti metri. Il nome dell’isola derivava, sin dall’antichità classica, dalla storpiatura latina del nome greco, aigylion, delle capre che vi pascolavano. Le più capre eravamo noi che pensavamo che prendesse il nome dai gigli che evidentemente non vi crescevano. Vi cresceva invece l’uva da cui un pregiato aleatico. Ma allora ero astemio, per la commiserazione del mio compagno di viaggio. Ho recuperato in seguito e gli chiedo scusa, lui contumace dal mondo.

Dalla nostra postazione il panorama toglie il respiro: azzurro a perdita d’occhio e silenzio. Raramente qualche gabbiano appare e si ferma con le ali aperte, sostenuto dal vento, in posizione “spirito santo”. Poi giù in picchiata, stridendo, verso il branco che vola sul mare. Oggi sono topi alati della discarica, ma allora era una benedizione. Intorno alla tenda la vegetazione profumata della macchia mediterranea e qualche alberello a fare ombra e sostenere l’amaca. Una vacanza di lusso, con pochi soldi, come ci potevamo permettere allora, come al tempo si poteva ancora fare. Quel tempo che ora stringe nel petto e manca, come le persone care che furono con noi e noi con loro. Potessero i ricordi evolvere anch’essi come la specie e divenire qualcosa di più che memorie e tornare a farci compagnia! E forse questo è il nostro vero progresso: della specie che custodisce i morti e il loro ricordo. Avevamo un fornello da campo. Il Mago era intento alla cucina. Io a cucinare ero una frana. Faccio due spaghetti, disse, fra poco si mangia. Il tavolino pieghevole nella minuta piazzola era già apparecchiato. Vado a fare un bagno e vengo, risposi. Scesi giù dalla scogliera e mi tuffai.

Era da quando eravamo arrivati che puntavo il Faraglione, era tardi, ma pensai: che ci vuole? Il tempo che cuoce la pasta. Il mare era una tavola. Presi a nuoto di buona bracciata e nuotai, nuotai, nuotai. Senza alzare la testa, respiravo di lato. Mi fermai solo quando ero più o meno a metà. Lo scoglio era più grande, ma ancora distante, quanto l’insenatura da cui ero partito. La spiaggia della baia lontanissima, quasi non si vedeva. Ero da me, in mezzo a tutto. La giornata era splendida, il sole a picco, nemmeno una nuvola e le acque erano sicure. Una barca a vela si avvicinò silenziosa, allora questa dimensione offriva il mare, gente a bordo mi chiese se fossi in difficoltà e volessi salire. Risposi, perché? Sto bene, grazie. Ero giovane e gradasso e ripresi a nuotare. In Capraia – anche lì ero con il Mago – mentre nuotavo dal Porto a sinistra lungo costa, verso una spiaggia lontana dove, man mano che avanzavo, vedevo in acqua della gente, mi si parò davanti, improvviso, un motoscafo militare e mi chiesero i documenti. In mare! La spiaggia dove stavo andando era quella dei carcerati. Mi issarono a bordo e mi riportarono al campeggio sotto scorta per controllare le mie generalità. Che pena i carcerati, ammanettati, portati sulle camionette al penitenziario o al lavoro forzato sui terrazzamenti dell’isola!

C’arrivai al Faraglione. Da sotto appariva scuro e imponente. Minaccioso. Volevo girarci intorno. Era staccato dalla punta da un brevissimo tratto di mare che era calmo, ma di là era aperto e incognito e la corrente creava una forte risacca che sbatteva su e giù tra la riva e lo scoglio. Bisogna temere il mare e osservare la sua divinità, così rinunciai, per paura e rispetto, a quella pur breve circumnavigazione. Toccai appena il monolite, quasi a chiedere scusa, e presi la rotta di ritorno verso la scogliera opposta, la tenda rossa. Ci misi molto di più che all’andata, forse la corrente non era propizia, sicuramente la stanchezza. Le bracciate erano meno potenti, più corto il fiato. Respirare bene, prendere poca aria e soffiarla via lentamente sott’acqua, nuotare senza forzare, scivolando sulla superficie: l’ho imparato da me, vedendo i più grandi. Questi, i segreti per eludere la fatica che, però, si faceva sentire.

Arrivai spossato, svuotato, ma il Faraglione era nostro! Risalii alla tenda, la pastasciutta era fredda e incollata nel piatto sopra cui una mano pietosa aveva messo una scodella, a mo’ di protezione. Il Mago dormiva, un piede dentro, uno fuori dell’amaca. Sul petto, tra le mani, teneva il libro che stava leggendo. Nel sonno aveva una specie di sorriso, lui era così: ironico e arguto. Forse se la rideva per un passo appena letto e ci rimuginava in sogno una storia delle sue. Gli esseri umani sono simpatici o non sono. È natura. Fosse stato sveglio gliel’avrei raccontato subito: Mago, ho fatto l’impresa, sono stato a nuoto di là dalla baia, dove il sole tramonta, davvero! Per farmi credere e prendere per il culo. Capace avrebbe detto: bravo, bella mi’ pastasciutta! Liquidandomi con una battuta. Non ho prove di questa ed altre traversate solitarie che ho fatto nuotando, ma giuro che sono vere. Quella al Giglio, l’ho misurata, saranno quasi tre chilometri, andata e ritorno. Ma ormai chissenefrega. Ho capito troppo tardi che, più che fare imprese, era meglio fare simpatia. Una questione di chimica, avrebbe detto il Mago. E magari, con amarezza e autoironia, avrebbe anche aggiunto che le imprese, alla fine, sono solo quelle funebri. Chissà dove sarà adesso? Forse da qualche parte nello spirito che ci circonda, insieme alla Pera, a sorridere di noi. “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene”,di Roy Lewis, era il libro che stava leggendo.

Marco Celati

Pontedera, Novembre 2021

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Massimo, il Mago, mi torna in mente di quando in quando, all’improvviso, come incontrare dopo tanto tempo un vecchio amico e scoprire che, nonostante il negligente distacco che la vita impone, i sentimenti restano ogni volta intatti. Se ne escono illesi. Anche con la morte funziona lo stesso, solo che l’imposizione è perentoria, crudele. E non possiamo farci niente, sopratutto lui. Mancano le persone care: è il contrappasso per averle trascurate, ma mancherebbero comunque, finché non mancheremo anche noi. Inutile fare gesti apotropaici. Il libro citato, somigliava al Mago, in spirito: leggerlo per capire cosa intendo. La canzone di Leonard Cohen è un omaggio al cantautore canadese ad un lustro dalla scomparsa. Nelle versioni giovanili si sente più il ritmo, ma questa di lui, old man, dal vivo a Dublino, è magnetica. Prendetevi il tempo di ascoltarla e godetevela. Se non sapete l’inglese come me, cercate le parole, la traduzione. In rete è facile, meglio che perdersi sui “social”. O fatevi aiutare da chi lo sa. L’uomo è un animale sociale, mica “social”. E poi l’evoluzione può attendere. Ma è questa l’evoluzione. È questa la specie. La Pera era il più caro amico del Mago. Nella foto, la baia di Giglio Campese.

Marco Celati

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati