Il più longevo dei narratori
di Pierantonio Pardi - martedì 14 marzo 2023 ore 09:00
Manlio Cancogni nasce per caso a Bologna nel 1916 da genitori versiliesi che si erano trasferiti nel capoluogo emiliano per un breve periodo durante la prima guerra mondiale, ma fecero ritorno in Toscana pochi mesi dopo la sua nascita; è quindi, a tutti gli effetti, uno scrittore toscano.
Di Manlio Cancogni colpisce per prima cosa la longevità, sia personale per aver vissuto novantanove anni, sia letteraria perché non è facile trovare uno scrittore che abbia pubblicato lungo un arco temporale di circa settant’anni.
Cancogni studia a Roma al liceo Tasso e successivamente si iscrive all’Università “La Sapienza” dove prende due lauree, prima in legge e poi in filosofia; negli anni romani conosce e frequenta molti scrittori della sua generazione, in particolare Carlo Cassola, Eugenio Montale, Carlo Levi, Vasco Pratolini. Vinse il concorso per l’insegnamento di storia e filosofia nel 1939 e insegnò come incaricato a Roma nel biennio ’39 – 40 al Liceo Virgilio. Successivamente andò ad insegnare a Sarzana, su sua richiesta, perché intendeva avvicinarsi il più possibile alla sua amata Versilia.
Fu richiamato alle armi e combatté nella Campagna di Grecia e poi sul fronte albanese. Dopo la liberazione si stabilì a Firenze dove iniziò la sua carriera giornalistica alla “Nazione del popolo”, poi fu chiamato a Milano e iniziò a collaborare con quotidiani e riviste nazionali: scisse per il Corriere della Sera, La Stampa, Il Popolo, L’Europeo, L’Espresso.
Alla fine degli anni ’60 si recò negli Stati Uniti per insegnare letteratura italiana allo Smith College di Northampton e da allora ha diviso la sua vita tra il Massachusetts e Marina di Pietrasanta.
Nel 1997 uscì “Lettere a Manhattan”, seguito nel ‘2000 da “Il Mister”, ambientato nel mondo del calcio e dedicato alla figura di Zeman; nel 1985 vince il Premio Strega per “Allegri, gioventù” e nel 1987 il premio Viareggio per “Quella strana felicità”.
La narrativa di Cancogni è molto centrata sulla quotidianità e sulla memoria, una memoria che riguarda in particolare l’Italia del Novecento e che viene raccontata in modo ironico, miscelando sapientemente il drammatico e il grottesco in cui spiccano con evidenza anche tratti psicologici e spesso autobiografici.
Nota giustamente Alfredo Ronci[1] che uno dei libri più famosi di Cancogni è appena citato nella Storia generale della letteratura italiana a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà.
Scrive Ronci:
“Azorin e Mirò rappresentò per il periodo (fu scritto a partire dal 1943 ma fu pubblicato solo nel 1948) un elemento di non ritorno. Sia la cultura che il modo di vivere erano segnate dal neorealismo e le cose al di fuori, se non decisamente lontane da esso, erano condannate a subire, spesso, l’allontanamento se non addirittura la condanna da parte dei settori più in vista dell’epoca. Azorin e Miròè semplicemente il resoconto di un’amicizia creata attorno ai libri e ad una visione dell’esistenza lontana dai criteri del tempo e descrive le alterne fortune dei due protagonisti, appunto Azorin e Mirò, dietro i quali si nascondevano lo stesso Manlio Cancogni e Carlo Cassola. E con la storia delle vicende dei due racconta anche la difficile e poco ragionevole teoria letteraria del subliminare.
Cos’era questa teoria? Lasciamola raccontare all’autore: Bisogna subito dire che il sub-limine era l’eccezione, e il non sub-limine la regola; che tutte le cose potevano in un certo momento essere sub-liminari ma che era più il tempo in cui non lo erano, e che Azorin e Mirò soffrivano proprio di questo, della normale non sub-liminarietà delle cose, e che perciò attendevano i rari istanti in cui il tessuto opaco delle cose si rompeva, e dal suo grigiore compatto scaturiva bello, puro,inimitabile,sublimine. .
Con questa espressione, nella storia, i due protagonisti, ma siamo praticamente certi che la definizione fu proprio del Cancogni, indicano ciò che sta “sotto” (sub) il limite esteriore delle cose. Per paradosso, sappiamo che le origini del romanzo sono da collocare appena prima della fine della seconda guerra mondiale, ai due amici non interessa la situazione reale (In quell’epoca regnava nel paese la dittatura ed egli non si occupava di politica) ma il semplice vivere delle cose e dell’identità.
La vera storia tra Cancogni e Cassola non ebbe un esito felice; Cassola non perdonò a Cancogni la sua fuga in America nel 1978 e soprattutto il fatto che non ne fosse stato avvisato.
Dice Cancogni: Cassola aveva un atteggiamento molto ambivalente nei miei confronti. Vede, lui era uno scrittore nato, niente da dire, ma io ero più sveglio. Più vivace. Con interessi più svariati. E Cassola non me lo perdonava. Ma il vero motivo di rottura fu che, nel 1978, decisi di trasferirmi in America e lo feci senza avvisarlo. Cassola mi scrisse una lettera di fuoco alla quale io non risposi. Non ci sentimmo mai più.
Ho voluto riportare queste curiosità su “Azorin e Mirò” perché è forse il romanzo più conosciuto di Cancogni.
Con “Quella strana felicità” invece, il romanzo che vado a recensire, Cancogni vinse nel 1985 il premio Viareggio.
Quella strana felicità
Il plot in breve
E’ un romanzo composto da cinque lunghi capitoli; è la storia di una vita, quella di Silvio. Cancogni segue il suo personaggio sin dal suo primo ingresso nel mondo (quando la mamma lo consegna a una balia che per un anno lo terrà con sé lontano dalla famiglia) fino al giorno terribile in cui, nei panni di un giovanissimo ufficiale, raggiunge la linea del fuoco al fronte greco – albanese. Nella vita di Silvio non ci sono eventi di grande rilievo: forse il suo amore più forte e più vero è quello per Ademia, la balia. Ma proprio per questo, ogni segmento temporale diviene carico di significato, importantissimo. Il tempo assume così il ruolo di protagonista. Il bambino, estraneo alla propria famiglia, si trasforma in un ragazzo duro, ostile, solitario (un egoista dicono di lui in casa; Radetsky, lo chiamano i compagni per sottolineare la sua estraneità); e infine in un giovane chiamato anzi tempo, a misurarsi con l’esperienza definitiva della morte.
Il tempo del romanzo di Cancogni è anche un tempo storico. Coincide con gli anni del fascismo, di cui Silvio vede l’esordio (la marcia su Roma) e il principio delle fine, con l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Il destino di Silvio è certamente individuale ma la sua solitudine, la sua affettività stravolta, sono anche una condizione esistenziale specifica del nostro tempo.
E qui si ritorna a quanto affermavo prima a riguardo della poetica di Cancogni che fonde spesso nei suoi romanzi, l’elemento intimo, esistenziale, autobiografico con quello storico, sociale e, spesso, come in questo caso, drammatico.
Dentro il romanzo
Parte prima
L’incipit:
Aveva due mesi, Silvio, quando fu dato a balia. Allora usava, se la madre non aveva latte o era in cattiva saluta. Per la bambina nata quindici mesi prima, avevano fatto il sacrificio di prendere una balia in casa. Ora non potevano permettersela. La casa era piccola. Il babbo, un impiegato al ministero, non aveva molti mezzi. In città la vita costava ogni giorno di più per via della guerra già al secondo anno; e bisognava pensare alla bambina che cresceva delicata, aveva bisogno di cure, mentre quel bimbo, grazie a Dio, era nato sanissimo.
Già da questo incipit si può avere un’idea dello stile di Cancogni, scabro, essenziale, paratattico.
Dopo 13 mesi i genitori ritornano dalla balia Ademia a riprendere il figlio e lo riportano a Roma, dove però entrambi si ammalano di spagnola e la madre, preoccupata per l’altra figlia Aldina, non si occuperà molto di Silvio che nel frattempo ha tre anni ed ha imparato a camminare. Poi i genitori si trasferiranno a Fiumetto e il padre porterà Silvio a trovare la vecchia balia, ma il ragazzino non proverà più verso di lei l’antico amore, ma solo imbarazzo.
Parte seconda
Continua la descrizione dell’infanzia di Silvio e delle nuove esperienze legate soprattutto al periodo delle vacanze trascorse a Fiumetto dove conosce e s’innamora di Carolina, una nipote del babbo di diciotto anni. Mentre il Fascismo inizia a mettere le sue radici, inizia per Silvio il primo giorno di scuola. Durante un saggio ginnico a Piazza di Siena, si innamora di una ragazza dai capelli rossi e dalle gambe lunghe e, nel frattempo, gli amici – nemici gli hanno affibbiato il soprannome di Radetsky.
Ecco come Cancogni descrive la scena in cui la madre presenta Silvio ai nuovi vicini di casa e dove si fa riferimento al soprannome di Radetsky:
La madre lo chiamava. Silvio entrava timoroso e subito vedeva il bel viso della signora illuminarsi e sorridergli. Vieni caro, fatti vedere. Lo accarezzava sui capelli, gli passava leggermente le punte delle dita sotto il mento. Cos’hai fatto a scuola? (…) Saputo della sua passione per la geografia gli regalarono un bellissimo atlante. Quando l’ebbe fra le mani così grande, non sapeva che cosa dire. Era troppo. La madre e il babbo lo incitavano: ringrazia, di’ qualcosa alla signora. Dio che figlio zotico e impossibile. Eppure ha già sei anni compiuti. Quando imparerà certe cose? Nemmeno fosse il figlio di un contadino. Dovevano proprio averlo cambiato a balia. Da chi avrebbe ripreso, se no, quei capellacci rossi, quella semola che aveva suggerito ai compagni di Cardoso e Fiumetto di chiamarlo Radetsky?
E in questo brano si può notare l’ironia che usa Cancogni nel tratteggiare il profilo psicologico dei genitori, decisamente “castrante” nei confronti di un già timidissimo e complessato Silvio.
Parte terza
Si descrivono le vacanze prima in Versilia, al mare, poi a Farnocchia dove il padre mostra ai figli le bellezze della Garfagnana (Volegno, Pruno, Tomezzana) la “Bella dormiente” e la Pania. Escursione fino alla casa di Oreste dove Silvio farà amicizia con Beppina che farà conoscere a Silvio le figure tipiche del paese, il Polenta e Ivo, il minatore dal volto distrutto da uno scoppio di acetilene, poi ritorno a Fiumetto a salutare i Mc Leod, amici di famiglia, il cui figlio Agostino aveva partecipato al gran premio motociclistico della Versilia dove correvano anche Varzi e Nuvolari. Poi il ritorno a Roma.
Ecco come Cancogni descrive l’arrivo a Farnocchia:
Al ponte stazzemese li aspettava il mulattiere con i muli, uno per i bagagli, l’altro per la mamma e Aldina. Silvio e il babbo salirono a piedi. Ci volevano due ore di mulattiera per raggiungere Farnocchia in cima a un poggio fra i castagni alto sulla valle delle Molina (…) Entrando fra le prime case, Silvio fu sorpreso dall’odore che pareva emanare dai muri di pietre grigie , dalle vesti consunte dei paesani che li guardavano passare in silenzio. Era un odore misto d’erba secca, di caldo, di bestie, che dava uno strano languore.
E’ una descrizione sinestetica che mischia alla vista l’olfatto e che Silvio assimila intensamente, dando vita ad una metamorfosi comportamentale che lo porterà a fondersi d’ora in poi con il paesaggio e con gli abitanti che andrà ad incontrare.
Parte quarta
Muore lo zio Gioacchino, antiquario, e questa è l’occasione che spinge tutta la famiglia ad andare a visitare la sua mostra in via del Babbuino. Aldina inizia a manifestare spiccate tendenze artistiche. Silvio si innamora di Irene, una compagna di scuola, e legge I Miserabili. Poi di nuovo in vacanza a Fiumetto dove Silvio non riesce a socializzare con nessuno dei suoi nuovi compagni, troppo volgari nel come parlano delle donne. Poi ancora a Roma, dove Silvio frequenta la IV ginnasio e fa conoscenza con un nuovo compagno, Fernando Reale, un ragazzo molto ricco che ben presto incontra la simpatia di Irene. Inizia così per Silvio una terribile gelosia che lo porta anche a meditare un assassinio nei confronti del suo rivale.
Vendicarsi, riconquistare Irene: questo bisognava, subito, e con questo pensiero Sllvio andava ogni giorno a scuola, e ogni giorno assisteva allo stesso spettacolo. Irene che non aveva occhi e sorrisi che per Fernando, e Fernando che bello, soddisfatto, sembrava far poco caso a quegli sguardi ed era buon amico di tutti anche di Silvio
La gelosia porta Silvio a meditare di uccidere Fernando e un bel giorno si compra un coltello che si porta sempre a scuola. Lo mostra anche a Leone il suo compagno di banco che, dopo un po’, capisce che Silvio vuole usarlo contro Fernando:
Leone si mise una mano davanti alla bocca mentre gli occhi gli si dilatavano. «Ho capito, sì, ora so chi è …» Il nome gli morì sulle labbra perché Silvio lo aveva guardato minaccioso. «Se dici qualcosa, ammazzo anche te.» Era fermamente deciso a farlo. Uscendo di casa non dimenticava mai il fedele coltello. Camminando lo stringeva nella tasca sinistra, quella dove teneva anche il fazzoletto.
Parte quinta
Silvio va soldato e viene arruolato come tenente tra i cacciatori delle Alpi. La guerra è quella greco – albanese (seconda guerra mondiale). Si narrano le vicessitudini di Silvio ed il suo “complesso di colpa” nei confronti dei soldati del suo battaglione ai quali durante una sosta del suo treno, offrirà una stecca di cioccolata. Poi la sua amicizia coi commilitoni, alcune serate di bisboccia ed infine la prima linea dove Silvio supererà definitivamente la sua paura.
Ed ecco come viene descritta questa scena di trincea e come viene affrontata da Silvio:
Il soldato guardava Silvio allegramente. «Allora viene con noi, signor Tenente?»
«Sì, sono con voi» rispose Silvio ridendo.
«Che cosa aspettate voi due ad andarvene» brontolò di dentro la voce del colonnello. Il soldato s’incamminò lesto per il canalino. Silvio gli corse dietro. La nebbia si stava diradando. Stracci grigi vennero loro incontro raso terra quando il soldato e Silvio arrivarono in cima al canalino
Poi, giunti finalmente al campo, vengono ricevuti dal capitano Vodice che riconosce Silvio e gli dice che è contento di vederlo:
Gli davano le novità. Gli dicevano che la battaglia dei giorni scorsi era stata terribile, che il battaglione durante l’attacco aveva avuto molte perdite, che erano stati uccisi, fra gli altri i capitani Cannata e Tonnetti, i sottotenenti Falcione e Calasso. E Silvio ascoltava, mangiava, annuiva e gli occhi gli traboccavano di felicità.
«Il tenente è allegro» disse il caporale. E il capitano: «Ha portato il buon umore e il bel tempo». Il sole stava filtrando nel rifugio di una fessura. E Silvio continuava a ridere.
E’ l’explicit del romanzo e si conclude con questo strano e misterioso sorriso di Silvio che ha però una spiegazione molto semplice: Silvio sorride perché finalmente si sente parte attiva di una comunità, si sente considerato, stimato e quindi, anche in una situazione drammatica come può essere quella di una prima linea sul fronte di guerra , è felice di aver trovato finalmente una sua identità, di sentirsi per la prima volta uomo.
[1] Alfredo Ronci, Un libro quasi dimenticato. “Azorin e Mirò” di Manlio Cancogni
Pierantonio Pardi